giovedì 11 gennaio 2018





Capitolo X

 

(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

 

30 marzo 1719

Una bomba colpisce la vecchia Sagrestia del Duomo, distruggendola totalmente ed uccidendo un soldato austriaco. Un’altra bomba esplode in aria, uccidendo con una scheggia, sotto le mura della Cittadella, un militare che si riscaldava al sole. Viene nominato tenente colonnello del reggimento dei Fucilieri di Savoia il Cavalier Barolo, maggiore del reggimento Saluzzo: sostituisce il deceduto conte di Ligneville 30 marzo. Tra l’altre bombe disparate dalli nemici spagnuoli, una pervenne sino dentro la Sagrestia vecchia del Duomo nella Cittadella. E crepata, un pezzo di quella - rintuzzato dalle pietre, ove diede - retornò indietro, ascendendo nel bastione di Santa Maria, dove uccise un soldato tudesco, avendoli pria fatto cadere dal capo e pilucca [evidentemente - considerando il successivo uso del plurale - il manoscritto non indica per dimenticanza qualcos’altro, oltre alla parrucca (pilucca), ndr], qual per la veemenza saltarono fuori del bastione, correndo nel piano dalla parte di sotto. E la suddetta Sagrestia tutta si disfece.

Altra bomba corse più lontano per infin sotto le mura della Cittadella. E crepata in aria, cadettero doppo nel suolo più pezzi, uno de’ quali uccise altro soldato tudesco, ancorchè s’avesse ritrovato giacente al sole per riscaldarsi e molto lontano da dove crepò la bomba. Ed in detto luogo giacevano molti e molti soldati tutti in terra: e nessuno di essi fu danneggiato, con tutto che molti pezzi avessero cascati innanzi ed in mezzo di loro.

In questo giorno fu laureato da tenente coronello del regimento de’ focellieri di Savoja il cavaliero Baroli, maggiore del regimento di Salluzio, in vece del fu conte di Lignavilla, da più giorni innanzi morto in questa come si descrisse. Tolto il fuoco delli cannoni colle bombe e mortari di pietre nelle trinciere, d’ambe le parti, in questo giorno non seguì danno alcuno, il che si descrive per un portento non mai seguito.

 

31 marzo 1719

Una barca carica di pentole depredata da due navi inglesi. Si continua a sparare ininterrottamente dai bastioni, con la morte di tre soldati, oltre ad altri gravemente feriti 31 marzo. Due navi inglesi predarono una barca carica di pegnate - sopra Caronia - che si conduceva in Palermo. Con averla condotta in questa città.

Tutti li bastioni di questa città dispararono in questo giorno tutte le loro artegliarie senz’intermissione di tempo per insino la sera, con tutto che quei posti nel bastione di Santa Maria nella Cittadella da più giorni a[d]dietro non s’avessero disparato. Come pure fu molto il fuoco nelle trinciere per le molte scopettate col disparo di molti mortari di pietre, tanto che furono uccisi tre soldati; e molti restarono gravemente feriti.

 

Due feluche, di cui una spagnola, s’incontrano senza attaccarsi, peraltro comunicando amichevolmente Dal Vespro sin la sera, avendosi incontrato due filughe nel porto di questa, una de’ Spagnuoli e l’altra che uscì da questo Capo, senza aversi fatto tra loro danno alcuno. Discorsero familialmente insieme le persone e nemeno si penetrò il discorso: si credette che avesse seguito per accidente l’incontro. E conoscendosi tra loro; e forse fossero state tutte paesane. Questo è vero che non si puotè penetrare la causa, ancorché s’avesse con molta ansietà richiesta.

 

 
La lunga fila di tende del campo spagnolo nella Piana
 
Fonte:
Guerra del 1718 in Italia per la successione di Spagna - I. e R. Istituto Geografico Militare in Vienna (contenuta in Campagne del principe Eugenio di Savoia / opera pubblicata dalla Divisione storica militare dell'I. R. Archivio di guerra [austro-ungarico] in base a documenti officiali e ad altre fonti autentiche [fatta tradurre e stampare da sua maestà Umberto Primo Re d'Italia] - Torino : Tip. L. Roux e C - vol. XVIII edito nel 1901: Guerre in Sicilia e in Corsica negli anni 1717-1720 e 1730-1732)
 
In fondo al presente capitolo, tutti i particolari della «Veduta prospettica di Milazzo» pubblicata nel capitolo IX

1 aprile 1719

Continuano senza tregua i bombardamenti: cittadini sempre più intimoriti A primo aprile. Fu così eccessivo il fuoco del cannone colle bombe e di pietre che si gettarono d’ambe le parti, e nella notte delle scopettate sin al mattino, che non si puoté esplicare. Poiché non si dava nemeno breve spazio di tempo che non rimbombasse il rimbombo. Per certo si credette che avesse successo per alcun impegno particolare de’ comandanti, gia[c]chè eccesse più dell’altri giorni. Per onde si può congietturare il grave timore e spavento che ebbero gli poveri abitanti di questa, non sapendo nessun di loro ove trattenersi, con badare solo per conservarsi la vita, avendo lasciato in abbandono tutte le loro case col mobile per essere predato da chi li piaceva.

 

2 aprile 1719

I Piemontesi passano in rassegna le proprie armi e munizioni in vista della consegna del tutto alle truppe austriache. Una bomba colpisce l’Oratorio dei Padri di San Filippo Neri, distruggendone una stanza. Si stima che dall’inizio dell’Assedio siano state sparate dalle truppe spagnole oltre 17.000 cannonate

A 2 aprile. In questo giorno si principiò dalli piemontesi e savojardi a fare la rassegna di tutta la provisione di guerra, che per loro conto esisteva nella Cittadella e Castello regio ed altri luoghi. Perloché publicamente s’asserisce da tutti che questi fra breve faranno la consegna di tutto alli Tudeschi per passar in Siragosa, per unirsi cogli altri loro nazionali da dove trasferirsi in Trapani, lasciando il regno liberamente alla Maestà Cesarea e Cattolica dell’Imperatore, come si scrisse.

In questo giorno una bomba del campo nemico diede nell’ospitio de Padri di San Filippo Nerio, nella chiesa di Giesù e Maria la Nuova, e disfece dell’intutto una loro camera.

Si raccontò publicamente, fattosi il calcolo delle cannonate disparate dalli Spagnuoli in città dal principio della guerra sin al presente giorno, che siano state al numero di 17 mila, anzi più.

 

3 aprile 1719

Molte bombe nemiche vengono lanciate in prossimità della chiesa di S. Rocco per colpire le truppe di cavalleria e fanteria austriache accampate nell’area sottostante il costone roccioso. Vengono uccisi 9 soldati ed un tenente. A 3 aprile. Oltre le bombe disparate contro la città e suoi bastioni e fortini, molte furono gettate vicino la chiesa di Santo Rocco e sopra e sotto il Monte, solo per offendere le truppe così di fanteria come di cavalleria tudesche, quali commoravano sotto detto Monte. In questo giorno furono uccisi 9 soldati con un tenente tedesco.

 

4 aprile 1719

Bomba centra la casa di Nicolò Parra al Borgo («sopra il Monte»), dimora d’un tenente colonnello austriaco, il quale, spaventato, riesce a fuggire ed a mettersi in salvo, suscitando ilarità tra i civili. Uccisi altri due soldati ed un caporale, tutti austriaci A 4 aprile. Ad hore 15, tra l’altre bombe, una diede nella casa del signor don Nicolò Parra, posta nel quartiero di sopra il Monte. Ed avendo crepato in una stanza dalla parte da dietro, ove abitava un tenente colonello tudesco, fracassò dell’intutto sudetta camera, con aver remasto due soldati ed un caporale dell’istessa nazione abbruggiati ed uccisi ed altri feriti. Il sudetto tenente colonello, qual si retrovava indisposto a letto, s’alzò frettoloso e discese la scala. E scalzo - e colla sola cammisa addosso - uscì da detta casa per il timore di non perdere la vita. Perloché non deve rassembrare strano se gli poveri cittadini ed abitanti in questa, non esercitati in simili accidenti funestissimi, avessero sempre stato con molto spavento e tremore. Quando quei che per molt’anni avevano sperimentato dette bombe in altre guerre, così gagliardamente si spaventavano con aver pratticato azzioni non condecenti né al loro offizio, né al proprio decoro. E con tutto lo spavento diedesi motivo alli cittadini di ridere.

 

5 aprile 1719

Una palla di cannone, dopo aver danneggiato un balcone della casa di Don Antonino Proto, nel quartiere di Santa Caterina, entra nella camera ove dormivano la moglie, il figlioletto e la sorella del Proto, fortunatamente rimasti illesi. Atra palla di cannone colpisce la casa di Don Guglielmo Colonna, nel quartiere di Santa Maria la Catena, e termina la propria corsa incredibilmente sotto le mura del bastione di Santa Maria 5 aprile. All’alba, fra l’altre palle di cannoni e bombe, una diede in un balcone della casa del signor Don Antonino Proto, nel quartiero di Santa Caterina, con averlo tutto fracassato,tanto il ferro come la pietra d’intaglio. Ed avendo entrato in una cameretta nella quale giaceva in letto la signora moglie del sudetto di Proto - col pargoletto lattante e la signora suocera Donna Vincenza, sorella del medemo, innanzi detto letto - tutte restarono illese, con tutto che la palla s’avesse retrovato innanzi il letto ed a’ piedi della detta sorella.

Altra palla di cannone fracassò di tal maniera un balcone di ferro, con aver rotto due cagnoli di pietra d’intaglio della casa del signor Don Guglielmo Colonna, nel quartiero di Santa Maria la Catena. Che, descrivendosi, non si darebbe credenza, poiché non si può presupponere se non s’osservava di presenza. Che avesse rotto due cagnoli di pietra, con averne troncato tutto uno dal muro e l’altro rotto, ha dell’incredibile. Che, doppo, avesse asceso la medema palla più in alto, con aver pure tolto dal balcone di ferro la maggior parte, con averla fatto correre nella strada, rassembra inverosimile. E finalmente, che la medema palla, fatto tutto questo fracasso, corresse nel piano saltando sino sotto le mura del bastione di Santa Maria nella Cittadella, per certo che si dà per impossibile. E pure tutto ciò successe in detto giorno, per averlo oculatamente osservato chi lo descrive.

 

Una bomba entra in casa del maestro Domenico Piraino, dirimpetto la chiesa di Santa Caterina, ove abitavano austriaci che vendevano carni. Altra bomba colpisce la casa di Onofria Pineda Perdichizzi, vicino la chiesa di San Domenico. Altre ancora esplodono altrove, danneggiando fabbricati immediatamente depredati dai soldati austriaci Una bomba entrò in casa di maestro Domenico Piraino, a dirimpetto della chiesa di Santa Caterina. Ed avendo rotto un astraco ben forte, con aver fracassato tutto il solaro, diede al fine nel pavimento, ove abitavano quantità di tudeschi che vendevano carni. E, non avendo crepato, restarono tutti con molto orrore e spavento pieni di calcina e pietre. Solamente uno legiermente ferito nella faccia con una pietra. E la casa disfatta  e consumata.

Altra bomba diede in casa della signora donna Onofria Pineda e Perdichizzi, vicino la chiesa di San Domenico. Diede in un muro d’una stanza terrana discoperta e, avendolo  dell’intutto fracassato, si precipitò nel suolo, nel quale entrata due palmi crepò, con aver saltato in aria tutta in pezzi. E ciò nonostante, la detta di Pineda con la figlia e sorella, le quali si ritrovavano dietro detto muro allo scoverto, non patirono alcun danno né da detta bomba, né dalle pietre di detto muro: solamente incalcinate col timore e spavento in eccesso.

Altre bombe crepate in aria sotto il bastione di Santa Maria nella Cittadella, altre crepate vicino la chiesa di San Rocco, tutte nel terreno, e molt’altre nella città - dalla parte inferiore - dentro molte case. E per bontà Divina né dette bombe, né molte palle di cannoni, fecero nocumento alcuno né alli paesani, né agli soldati o ad altri. Bensì più e più case furono fracassate. Ed il peggio era che, entrando alcuna bomba in qualche casa, nell’istante correvano molti tudeschi, depredandola con togliere tutto il mobile, specialmente in quelle ove non abitavano paesani, ma si retrovavano serrate. Anzi, se succedeva la disgrazia in case abitate dalli medemi tudeschi, restavano pure - ancorché non si retrovasse mobile - senza tetto, né tavole, né legna. E di ciò mai apparì segno alcuno di providenza dall’officiali, tanto che se non s’avesse conosciuto la loro integrità e l’esatta disciplina militare, sovente esercitata pure coll’austerità dovuta verso gli soldati, si potrebbe dire che fossero stati consentienti per effettuarsi tal preda, per non dir latrocinio evidente. Vero fu che gli poveri cittadini e per avere stato quasi estatici, e per lo spavento di non perder la vita, o per demostrare con evidenza quella fedeltà che nel cuore conservavano alla Maestà Cesarea e Catolica, pacientemente soffrivano sì continue angosce senza nemeno lamentarsi. Conoscendosi pure che avrebbero riuscite infruttuose le loro, nonché lamentazioni e querele, l’istanze giustificate.

 

Una palla di cannone sparata dal fortino dell’Albero, urtando le mura urbiche poste lungo la spiaggia accanto alla chiesa di Gesù e Maria la Vecchia, odierna S. Maria Maggiore, torna indietro uccidendo Lorenzo Maiorana, colpito alla testa mentre scaricava, assieme ad altri pescatori, sacchi di farina destinati alle truppe austriache Sul tardi molti marinari conducevano dal Capo con alcune barchette quantità di sacchi di farina per servizio delle truppe tudesche, per repostarla in alcuni magazeni deputati per tal effetto nella Marina di questa città. E, con tutto che nel viaggio avessero venuto con dette barchette con ogni circospezione per la ripa, affinchè non inciampassero in alcun sinistro accidente per essere discoperti dal cannone delli nemici Spagnuoli nel fortino dell’Albero, nondimeno, osservate le barchette, si dispararono da detto forte molte e molte cannonate. E mentre con ogni sollecitudine gli marinari - approdate le barchette in terra - attendevano al disbarco della farina, una palla colpì a Lorenzo Maiorana, uno dei detti marinari (mentre teneva in collo un sacco di detta farina), nella testa e faccia. Ed il povero di subito fu ucciso. E per certo si vidde essere stata fatalità, perché data la palla nelle mura della Marina, vicino la chiesa di Giesù e Maria la Vecchia, retornò indietro, con aver ucciso al marinaro. Perloché la farina nella notte si potè repostare in magazeni.

 

Cinque disertori riferiscono, tra l’altro, l’arrivo di otto nuovi cannoni da Messina per le truppe spagnole In detto giorno comparvero cinque desertori dal campo spagnuolo. Riferirono aversi condotto da Messina otto cannoni da battere nuovamente fatti, con molte provisioni di guerra. Come pure esserci scarsezza di denari, ma ogni sorte di viveri. E ritrovarsi molt’infermi nelli luoghi deputati per ospidali, non passando giorno che non avesse seguito la morte di più soldati ammalati.

 

6 aprile 1719

Giungono dal campo spagnolo altri quattro disertori A 6 aprile. Comparvero dal campo spagnuolo altri quattro soldati desertori. Non riferirono cosa di considerazione né quelli del giorno antecedente, né questi volsero prendere partito. Anzi richiesero che fossero condotti in Napoli. Ed in effetto l’istessa sera, per esservi il passaggio di molte imbarcazioni per quella città, tutti e con altri spagnuoli desertori furono imbarcati.

 

Muoiono nelle trincee cinque soldati austriaci. Tra i feriti, uno con la gamba maciullata Fu molto continuo il disparo delli cannoni colle bombe dal mattino sino a sera. Ed in quella notte, per insino all’alba, si dispararono più migliara di scopetti nelle trinciere. E di più si dispararono molti mortari di pietre così di vicino, come da lontano. Per onde morirono di palle di schioppi e con pietre cinque soldati tudeschi. Ed alcuni feriti. Ed uno senza gamba fracassata dell’intutto con una pietra.

 

«S’intendevano da lontano alcuni canti con bellissima armonia»: il generale Zumjungen si riunisce in preghiera - in una giornata piovosa e sotto un tendone da campo - coi cappellani ed altri austriaci di fede luterana sotto il Castello, nel luogo ove erano accampate le truppe austriache In questo giorno corse la principale festività del giovedì Santo. Perloché da tutti gli fedeli s’attese con ogni riverenza a richiedere l’Altissimo Dio Sacramentato, come si comanda dalla nostra Santa Chiesa Romana in memoria dell’Instituzione ineffabile del Santissimo Sacramento dell’Altare. E per retrovarsi il signor generale Zumjungen, comandante tedesco, luterano ed eretico, s’unì con gli suoi cappellani dell’istessa setta, con altri molti che seguivano l’istessa eresia, retrovandosi in questa città molti e molti eretici delle truppe tudesche. E conferendosi assieme tutti nel Purracchito sotto il Regio Castello (ove da più tempo si teneva armato un paviglione di campo e si retrovava alloggiato in quel recinto il suo regimento, il quale nella maggior parte prosiegue la sua setta), ben mattino si principiavano le loro orazioni, che continuavano per più ore. E solamente s’intendevano da lontano alcuni canti con bellissima armonia e concerto, intercalatamente. Precedendo il Paroco loro principale alcune note col canto, respondendo gli altri. S’affermò da chi per curiosità o per accidente intese le loro devozioni che molto piaceva all’udito l’armonia concertata. Bensì nessun delli paesani azzardò ritrovarsi presente a questa funzione (con tutto che vi fosse stata proibizione per aver pure rimorso della coscienza di vero cattolico), essendo proibito agli fedeli intervenire a simili esercizij.

S’osservò inoltre che nel medemo giorno, per esservi una pioggia così eccessiva, non perciò si sovrasedette alla funzione da detti eretici. Anzi, per esser molti e non essendo capace il paviglione per tenerli tutti al coverto, si contentarono alcuni esclusi dell’entrata soffrire la pioggia dalla parte di fuori. Di più, li due seguenti giorni, che furono venerdì e sabato Santo, pure si fece il medemo congresso in detto luoco, sentendosi il concerto col canto ben forte. Ed inoltre così per il passato, come in avvenire, per ogni giorno di festa a lor modo si frequentavano dall’eretici le sudette e consimili funzioni nel luogo sudetto, ritrovandosi in città molti di detta setta ed alcuni dell’altre. E li loro cappellani andavano senza alcun abito clericale, anzi facilmente puotevano esser differenziati dell’altri cappellani catolici.

 

7 aprile 1719

Soldato catalano diserta a nuoto all’alba. Giunge assiderato e riferisce la presenza di 14.000 militari spagnoli A 7 aprile. Su l’alba desertò dal campo spagnuolo un soldato catalano, il quale se ne fuggì per mare, avendosi partito a nuoto per il mar di Levante, con tutto che la notte avesse seguita una pioggia continua. Perloché venne molto intirizzito dal freddo e quasi spirante. Raccontò che nelli Spagnuoli in detta Piana si retrovavano 14 mila (il che allora fermamente si credette). Inoltre, attestò aversi inviato con ogni sollecitudine nella città di Messina per condursi più cannoni e bombe.

Malgrado l’arrivo di diverse imbarcazioni cariche di viveri, partite da Napoli e dalla Calabria, non si riesce a soddisfare il fabbisogno della città a causa dell’elevato numero dei militari accampati e della difficoltà a navigare lungo le coste controllate dagli Spagnoli Approdarono in questo Capo molte tartane e felughe venute da Napoli e da Calabria, con aver condotto quantità di viveri e comestibili per servizio delle truppe ed inoltre di particolari [privati, ndr] per lo smaldimento di farine, carni, vini, galline, formaggi ed altri consimili. Bensì la città sempre si retrovava affamata, non potendo le vettovaglie venute esser sufficienti a pascere ed alimentare tante e tante squadre e truppe tudesche ed altri, oltre li poveri paesani. Tanto più che era necessario venire per mare: e tutte le volte che incontrava il vento contrario o[p]pure sequestrate l’imbarcazioni per timore de’ corsari nemici - de’ quali sovente era infestata tutta la costa della Calabria e del Capo di Rajsicolmo, o quello altro Capo d’Orlando e l’Isola di Lipari, tutti dominati dalli Spagnuoli - ed anche non retrovandosi in questi nostri mari navi inglesi, le quali servivano per fida scorta di dette imbarcazioni, sempre si pativa in città d’ogni sorte di comestibili.

 

Si diffonde tra i civili la paura dell’assalto a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti Fu così continuo il disparo di schioppi nelle trinciere col gettito di molte pietre, per tutta la notte scorsa sin all’alba, che li poveri cittadini furono forzati a riguardar l’evento per il timore di non seguire alcun assalto generale, col pericolo di perder la vita, nonché la robba, essendo stato così fervente. Che pure il rimbombo stordì à tutti. E mentre si stava con alcun sollievo, che si conoscette non aver seguita la battaglia, principiò il disparo delli cannoni di tutti li fortini d’una parte e l’altra colle bombe. Che persisteva sino la sera. E, così, scampandosi un pericolo, si inciampava in un altro magiore, tanto che tutti apparivano estatici e fuor di sensi.

 

8 aprile 1719

Per ordine del generale Zumjungen, a seguito delle istanze dei cittadini, si concede, durante il canto del Gloria nella messa di Pasqua da celebrarsi nella chiesa di Maria SS. della Catena, di suonare a festa le campane della chiesa del Rosario e del Duomo antico, quest’ultimo ancora adibito ad ospedale delle truppe piemontesi. Le altre chiese adibite nel frattempo a deposito viveri e munizioni o piuttosto dirute o messe a disposizione delle truppe tedesche. Triplo sparo delle artiglierie della Piazza consentito dallo stesso Zumjungen, malgrado tale generale fosse luterano

8 aprile. D’ordine del signor generale Zumiu[ngen], comandante tudesco, e del comandante Missegla nella Piazza, a contemplazione dei poveri cittadini e colle reiterate suppliche, s’ottenne che, nell’intuonarsi il Gloria in Excelsis Deo nella messa cantata della Resurrezione del nostro commun Redentore, della quale si celebrava la festività in detto giorno, si puotessero suonare le campane a trionfo, da più tempo non intese, nemeno con un semplice tocco, per convocarsi gli fedeli nelle chiese per udir la santa messa, stante la proibizione avuta. Sic[c]hè, ciò previsto da tutti gli paesani per la licenza ottenuta, stavano tutti anelanti coll’aspettazione dell’hora prefissa.

 

E già venuto il tempo, s’intese non solamente il tuono di tutte le campane in tutte quelle chiese che erano in puotere delli paesani, retrovandosi molte o serrate col riposto di farina e provisioni di guerra o al servizio delle truppe tudesche. O altre dirupate e senza campane. Precedendo al suono la campana de’ Padri Domenicani e susseguentemente del Duomo, con tutto che la messa cantata si celebrasse nella chiesa di Santa Maria la Catena, per esser la Matrice in puotere delle truppe Savojarde e di Piemonte, servendoli d’Ospedale. Anzi, nel medemo instante, s’intese il triplicato disparo di tutte l’artegliarie nella città per segno d’allegrezza, ciò permesso da detto signor generale Zumiungen, con tutto che fosse stato luterano.

 

Proprio mentre i Milazzesi si rallegrano per il suono delle campane, gli Spagnoli riprendono i bombardamenti: morti otto soldati austriaci ed un soldato piemontese Si può credere che le lagrime di tutti gli abitanti paesani furono in eccesso tanto per la solennissima festività della Santa Resurrezione del nostro umanato Dio, come per il suono di dette campane per più mesi mutole.

E mentre da’ cittadini s’aveva il consuolo per detta festività, nel medemo instante li fu intorbidato dalli Spagnuoli. Poiché questi incominciarono a gettar in città una copiosa quantità di palle di cannoni con molte bombe, persistendo sin la sera. Ed inoltre nelle trinciere per tutta la notte si dispararono più migliara di scopettate col disparo di più mortari di pietre. Perloché s’intese aver restato uccisi da palle di schioppi e con pietre otto soldati tudeschi ed uno savoiardo, con molti feriti.

 

9 aprile 1719

Bomba esplode al Borgo vicino le case di mastro Giovanni Passalacqua, causando il crollo di più fabbricati, ma senza ferire nessuno A 9 aprile. In questo giorno il disparo delli cannoni d’una parte e l’altra fu molto continuo. Bensì quello de’ Spagnuoli fu più fervoroso, gettandosi più e più bombe, una delle quali pervenne sin al Borgo vicino le case di mastro Giovanni Passalacqua, dalla parte di sotto. E, crepata, dirupò più case convicine e lontane. Il che rassembra incredibile. E[p]pure non seguì danno alcuno nelle persone.

 

Altra bomba piomba nel convento di San Domenico senza tuttavia esplodere. Si salvano così tutti i Padri convocati dal generale Zumjungen per gli auguri pasquali Un’altra diede sopra il convento di San Domenico e profondò innanzi la camera ove albergava il signor generale Zumjungen, comandante. Ritrovandosi in quel luogo tutti gli Padri di esso convento, per esser introdotti dal detto signor generale per complir nell’augurio di dette feste Pascali. E avendosi precipitato la detta bomba, diede innanzi li piedi delli Padri sudetti, quali restarono illesi [e] un puoco imbrattati di calcina del tetto dell’intutto precipitato. Ed il miracolo fu che non crepò: che se ciò avesse seguito, senza dubio, alcuno delli suddetti Padri avrebbe rimasto ucciso, tanto per la strettezza del luoco, come per non avere spazio la bomba, rompendosi, di puotere svaporare la polvere.

 

Danneggiata da un’altra bomba la casa attigua a quella del sacerdote Giacomo Iaci, in prossimità della chiesa di Maria SS. della Catena. Rimangono illesi Giuseppa Siragusa ed alcuni soldati che si trovavano nelle vicinanze Altra bomba scaricò vicino la chiesa di Santa Maria la Catena, innanzi la casa del sacerdote D. Giacomo di Iaci. Fattasi in pezzi, con tutto che in detta casa, nella quale entrò un pezzo di essa, s’avesse ritrovato la signora Donna Giuseppa Siragosa ed Joppolo. E pure quantità di soldati posti al sole, pochi passi distanti da dove crepò la bomba. Tutti rimasero illesi, ma si dirupò una casa convicina.

 

Bombe nella città bassa, ma non trapelano notizie, stante l’assenza di comunicazioni tra i residenti al Borgo e quelli della stessa città bassa Altre bombe in quantità furono gettate nella parte inferiore della città, ma, per non esservi la communicazione delli medemi cittadini della parte di sopra e quella di sotto il Quartiero delli Spagnuoli, nemeno si puoterono sapere. Solamente [negli] giorni susseguenti s’intendeva alcuno speciale accidente. Perloché non si possono con distinzione descrivere. Verità si è che non si ritrovò casa, delle rimaste in piedi, che non avesse stata toccata o da bombe o da palle di cannoni.

 

Due palle di cannone colpiscono al Borgo, rispettivamente, la casa dell’autore del presente manoscritto ed il convento di S. Domenico Una palla di cannone trapassò la casa del signor Domenico Barca, nel piano di S. Domenico. Dirupò un pezzo di muro sopra l’astraco di essa casa e corse nella casa del sacerdote Don Nicolò La Malfa, in altra strada. E benché fosse stata piena di molti soldati tedeschi, questi non furono danneggiati. Ma tutto il muro della casa sudetta, dalla parte che entrò la palla, si precipitò.

Altra palla di cannone entrò nel convento di San Domenico dal tetto, quale dell’intutto si fracassò. Ruppe una camera e discese sin dentro la cucina del generale Zumjungen, disfacendo pure - oltre le mura - nel precipitarsi parte di essa cucina ed il collo della gisterna.

Nel quartiere di S. Giacomo una bomba colpisce un magazzino. Prima dell’esplosione i militari austriaci che vi dimoravano riescono a mettersi in salvo. Altra bomba colpisce il tetto della chiesa di S. Giacomo, finendo poi nella spiaggetta antistante Altra bomba diede in un magazeno di mastro Saverio Majolino, nel quartiero di San Giacomo, nel quale commoravano aquartierate molte truppe di soldati tudeschi. E non avendo crepato nell’instante dell’ingresso, diede campo e tempo a tutti sudetti soldati d’uscir dal magazeno. Ma doppo, fattasi in più pezzi, restò quasi tutto il tetto fracassato e consumato tutto il mobile che in esso esisteva. E gli soldati evitarono l’evidente pericolo della morte, restando privi del loro mobile, con molto spavento e terrore. Ma non per questo si provecchiarono, almeno delli legni del magazeno, quali predati pubblicamente si venderono a loro gusto. Avendosi sperimentato con quei che hanno dimorato in questa, poiché non si puotè discernere se ciò procedeva per intrepidezza o pure per aver luogo, occorrendo l’accidente, di provecciarsi dal mobile di quella casa che restava devastata, ancorché in minima parte, almeno d’un pezzo di legno per venderlo. Peronde la sudetta casa infallibilmente doveva precipitarsi dell’intutto.

Altra bomba diede sopra la chiesa di San Giacomo. E rotto parte del tetto, corse alla ripa del mare, ove crepò senza d’anno d’alcuno.

Tolte le dette bombe, ne furono molt’altre in città, con aversi fracassato più e più case. Ed il peggio era che, entrata la bomba in qualunque casa, restava dell’intutto disfatta dalli soldati etiam nelli legna, asserendosi che avevano acquistato il ius.

 

10 aprile 1719

La presenza durante la notte dello Zumjungen, del Missegla e degli ufficiali nelle trincee austro-piemontesi fanno ipotizzare un attacco 10 aprile. Certamente si credeva dover seguire attacco generale, poiché la notte vi furono disparate bombe in quantità e schioppi da più migliara. Magiormente che il generale Zumjungen ed il generale Missegla con tutti gli officiali assistettero in detta notte nelle trinciere, avendosi retirato in città la mattina ben tardi. E si seppe che nelle nostre trinciere restarono uccisi sette soldati e più feriti.

 

11 aprile 1719

Tre disertori informano che nel campo spagnolo, ove erano appena giunti 12 mortai per bombe da Messina, si lamentava penuria di denaro, tanto che persino gli ufficiali erano in arretrato con le paghe 11 aprile. Tre spagnuoli desertarono dal loro campo. Affermarono aver venuti da Messina nel campo 12 mortari di bombe con quantità di esse. Esservi abbondanza di viveri, ma scarsezza di denari, restando attrassate le paghe pure degli officiali per più mesi. Richiesero il passaggio per Napoli. Non volsero prender partito, ancorché li fosse stato offerto per essere giovani molto gagliardi ed avvisti.

Il ritardo nel pagamento delle truppe spagnole causato dalla cattura - da parte delle forze navali britanniche - di un vascello carico di denaro loro destinato. I soldati austro-piemontesi ne danno notizia ai nemici, lanciando biglietti da una trincea all’altra, verosimilmente allo scopo di spingere i militari spagnoli alla diserzione Si disse publicamente che le navi inglesi avessero preso un vascello spagnuolo carico di denari inviati per la provisione delle sue truppe, che commoravano in questo Regno. Con esservi pure sopra detto navilio molte persone principali spagnuole. Di più, per aversi notizia nel campo spagnuolo di detta presa di denari, s’abbiano lanciato dalle nostre trinciere molti viglietti in quelle del nemico o con dardi o con fronde, affinché restassero scienti di questa perdita.

Il fuoco d’una parte e l’altra fu continuo e la notte ed il giorno, e di cannoni e di bombe e di schioppi.

Vento impetuoso crea panico tra i cittadini Corse un validissimo vento di scilocco in questa città che, oltre aversi dirupato più case, precipitandosi in quelle parti che si retrovavano fracassate, con aversi lucrato dalli tetti tutti gli canali li soldati. Pure nel Capo naufragarono alcune imbarcazioni che si retrovavano approdate nella ripa del mare ed altre furono costrette, per salvarsi e non pericolar dell’intutto, far gettito di tutto quel vino che sopra esse si retrovava. Per certo, se persisteva il vento, s’avrebbero naufragate con tutte le mercadanzie. In città, poscia, non si poteva dar un passo, temendo ogn’uno colla furia del vento non precipitarsi, non puotendosi resistere in piedi. E di più, per non soggiacere ad alcun sinistro accidente o di precipitarsi sin al suolo alcuna casa, o restar offeso dalli canali di dette case che volavano nell’aria. Si può affermativamente dire che si credette da tutti in generale, cossì cittadini come forastieri, che tutta la città s’avesse da subissare, poiché realmente fu molto scatenato il vento, tanto che si reputò non esser naturale, non avendosi mai osservato un flagello così impensato, né mai visto  [segue nota che annuncia l’inizio del libro n. 13, ossia del tredicesimo gruppetto di pagine, dal quale inizia il manoscritto originale, ndr]

 

12 aprile 1719

12 aprile. Gli cannoni del nemico molto si fecero a sentire in città col disparo di molte palle. E si gettarono molte bombe, con aversi disfatto molte case. E la notte si viddero disparare nelle trinciere più migliara di scopettate e molti mortari di pietre. E benché dalla città s’avesse fatto l’istesso, non perciò fu cossì fervoroso il fuoco come quello delli Spagnuoli.

Si trasferiscono due cannoni dalla Porta del Capo a quella di Palermo Il generale Zumjungen, tudesco, associato da molti signori generali ed officiali suoi nazionali, si pose a cavallo, circondando tutti gli posti, rivedendo gli bastioni e fortini, così dentro come fuori della città. E di più si conferì nel Capo, ove si trattenne sino a Vespro. E la sera, dalla Porta di detto Capo, si levarono due cannoni da battere colle casse, per ritrovarsene vicino detta porta il reposto di più cannoni, casse, ruote, palle, ed altre provisioni di guerra. E fu necessario travagliar per tutta la notte gli soldati, conducendo detti cannoni nella Porta di Palermo, unitamente con l’altri ordigni militari. Tanto che nemeno gli poveri cittadini puotevano aver quiete la notte col rumore e grido che facevano le truppe, seguendo ciò al buio per non esser discoperte nella condotta di detti instrumenti bellici dalli Spagnuoli.

Trasferimento di munizioni dalla cittadella fortificata e dal Capo verso le Porte di Messina e Palermo. Falegnami al lavoro presso le Porte del Quartiere e di Palermo per la costruzione, tra l’altro, di ruote e casse di artiglieria Di più, nel medemo giorno si trasportarono tanto dalla Cittadella, come da detto Capo, molte e molte bombe con granati reali alli fortini, nelle porte di Messina e di Palermo. Di più, in detto giorno, molto travagliarono tutti li maestri di legname nella Porta del Quartiero nominato delli Spagnuoli ed in quella di Palermo, unitamente con altri maestri tudeschi, facendosi e ruote e casse di cannoni, e palaccioni et altri ordigni di guerra. Il che da più giorni innanzi s’aveva adoprato con aver continuato per insino che si tolse l’assedio dalli Spagnuoli colla loro partenza dalla Piana [tale frase è la prova evidente che il manoscritto del Barca fu scritto ad assedio concluso, ndr].

Di più, guagliardamente s’attese dalle truppe a formarsi le fascine atte per farsi trinciere così dentro le porte, come di fuori. E nelle mura. Sopra che non si trascurava atomo di tempo, anzi facendosi molti ripari, fossate e terrapieni. Oltre di quelli che prima esistevano.

Si costruisce dalle truppe una strada per condurre artiglierie da una delle calette del Promontorio sino alla Porta del Capo. Di essa - molto panoramica - se ne giovano ovviamente anche i cittadini. Per la sua costruzione espropriate strisce di terreno con diversi filari di vite. Di più, per avere stato molto fatigoso lo trasporto e di cannoni, casse, ruote, bombe, palle, fascine, legnami, tavole ed altri consimili dalla ripa del mare nel Capo, per essere molto montuosa e scozzese [scoscesa, ndr] la strada, da più tempo innanzi s’aveva principiato a formarsi una via adaggiata da detta ripa per insino alla Porta del Capo, di longhezza d’un miglio e mezzo. Per la quale non solamente si conducevano detti cannoni ed altri, ma pure con ogni faciltà potevano scendere e salire due e tre carrette guidate da cavalli cariche di palle, bombe, polveri ed altri, come pure farine, commestibili e vini ed altri. Con aversi fatto la sudetta strada con molti giri e rivolte, non puotendosi con altro modo aversi l’intento, stante che oltre li dirupi che esistevano per condursi alla Marina, pure detta ripa era molto bassa e si doveva salire alla parte di sopra sempre ascendendo. E ciò nonostante, colla fatiga di più truppe e con zappe, si fece sudetta strada, per la quale pure si potevano condurre le carrozze al passeggio. Per certo che, osservandosi, appareva molto deliciosa, appagandosi l’occhio con tal veduta. Ma non si può descrivere poscia l’afflizione di tutti quegli cittadini, li quali tenevano le loro vigne e stabili nel luogo che si construsse questa bella strada. Poiché fu vuopo togliersi le vigne che in essa si ritrovavano, tagliandosi tutti l’alberi, ancorché fruttiferi, che impedivano la via della longhezza già espressata. E larga più di passi diece. E si può ancora reflettere il maleficio avvenne alle vigne che esistevano all’intorno della strada sudetta, di continuo calpestrate dalla cavalleria, oltre dell’innumerabile quantità e delle truppe e delli forastieri che approdavano in detto Capo. E di più di tutti gli paesani, li quali erano forzati in ogni modo conferirsi in detto scaro per farsi provisione per magnare, valendo gli viveri in città quasi al doppio, venduti da mercenarij per lucrarsi a suo modo. Quello si vidde nel corso della guerra non è credibile. E sembra molto stravagante: solamente chi l’osservò può ridirlo, ma non si può descrivere con ogni specialità.

 

13 aprile 1719

Sei morti nelle trincee 13 aprile. In questo giorno fu spaventevole il disparo delli cannoni delli nemici spagnuoli, non rallentando alcuno breve spazio di tempo. Ma continuando dal mattino sino la sera, assieme col gettito di molte bombe. E la notte nelle trinciere si dispararono in quantità le scopettate e si buttarono molte pietre, tanto che restarono morti cinque soldati ed un tenente tudesco. Ed un caporale perdette una gamba troncatali d’una pietra. E molt’altri soldati feriti.

 

14 aprile 1719

Una bomba danneggia la scalinata in pietra da taglio della chiesa di San Gaetano al Borgo 14 aprile. Al solito fu continuo il fuoco delli cannoni disparati col gettito di più bombe nella città. Una delle quali si ruppe sopra la scalonata della chiesa di Santa Maria la Catena, fracassando tutte le pietre d’intaglio di detta scalonata. E con tutto che le dette pietre s’avessero inalzato in aria con parte di detta bomba in pezzi e doppo precipitate in più luoghi nel suolo, non vi fu danno d’alcuna persona. Solamente un pezzo di detta bomba entrò nella casa di maestro Papino Composto, ruppe il tetto e quegli che abitavano in essa restarono illesi.

Vascello misterioso si avvicina alla cala dell’Oliva al Capo, ove si trovavano diversi cannoni Entrò in questo porto a vele piene, correndo un vento gagliardo da libeccio, vicino lo Scaro dell’Oliva nel Capo, un vascello con l’arme di Francia. O fosse stato per non farsi a conoscere o per altro suo fine, ammainò le vele nel detto scaro, nel quale si ritrovavano molti cannoni alla ripa del mare. E nel medemo tempo, o per astuzia e sagacità o forzato dal vento, di nuovo inalberò le vele et entrò un puoco distante da detto Porto. E finalmente fece alto nella ripa a dirimpetto della città, sotto il cannone delli Spagnuoli. Osservandosi da tutti in questa che gettò lo schifo [piccola imbarcazione di servizio, a remi, in uso sui mercantili, ndr] in quella ripa e non si ebbe notizia di qual nazione fosse stato il navilio.

Ancora morti tra gli austro-piemonesi La notte scorsa si dispararono nelle trinciere molte e molte scopettate, come pure molti mortari di pietre. Perloché restarono delle nostre truppe tre soldati tudeschi uccisi da palle di schioppi. E molti altri gravemente feriti.

 

15 aprile 1719

Nelle trincee si cominciano a caricare i mortai anche con granate e palle di moschetto 15 aprile. In detto giorno non cessarono le palle di cannone e le bombe gettate nella povera città. Perloché molte case restarono demolite. E la notte si continuò il fuoco delli schioppi nelle trinciere, gettandosi molte pietre. Anzi, si principiarono a disparare mortari pieni di palle di moschetti ed altri di granati per magiormente offendere le nostre truppe. Perloché tra l’uccisi e tra li feriti si numerarono diece soldati. Ed il peggio era che gli remasti feriti difficilmente si puotevano guarire o per mancanza di cura e di medicamenti o per quello che si vociferava, [ossia] che le palle delli schioppi erano avvelenate o almeno tagliate per apportar più danno.

Bomba demolisce casa del Borgo posta accanto al convento dei Domenicani: muore Maria Basile, seppellita nella chiesa del Rosario Tra l’altre bombe nel Borgo disparate, tra le quali molte creparono nell’aria ed altre in luogo aperto, una entrò in uno astraco della casa delle figlie del fu maestro Salvadore Basile, posta a lato del convento di San Domenico. Nel quale astraco si ritrovava Maria, una di dette figlie. Perloché, crepata la detta bomba, diede nella testa della sudetta di Basile con averla uccisa. E nel medemo tempo fu condotta la poveretta nella chiesa di detto convento per sepellirsi, restando tutta sudetta casa demolita, con la maggior parte del mobile abbruggiata. E l’altre due sorelle dell’uccisa, tutte spaventate, piene di calcina e pietre che si precipitarono. Anzi colla perdita di molto mobile pure rubbato dalli soldati.

Bomba danneggia l’Oratorio di S. Filippo Neri, causando la morte del fratello Pietro Greco da Monforte Altra bomba entrò dal tetto nella cucina del Venerabile Oratorio de’ Padri di San Filippo Nerio, retirati nella chiesa di Giesù e Maria la Nuova. Retrovandosi nella detta cucina il fratello Pietro Greco di Monforte, che cucinava per li sudetti Padri, e crepata la bomba, [questa] ferì nel petto al sudetto di Greco, con averli fatto uscire l’interiora. Perloché nell’instante restò ucciso, avendosi dell’intutto distrutta la camera con la maggior parte dell’Oratorio.

Scoramento dei Milazzesi che auspicavano persino una sconfitta del proprio esercito purché fosse restituita loro la pace In questo giorno apportò così grande spavento e terrore a tutti li cittadini ed abitatori nella città per vedersi di punto in punto colla morte innanzi gli occhi ed inoltre privi di tutto il loro mobile abbruggiato dalle palle e bombe. E la maggior parte assassinato dagli soldati ed altro preso d’alcuni officiali per forza. E di più di tutte le loro case sfabricate e demolite ed assassinate pure d’alcuni loro parenti ed amici, nonché dalli soldati. Che, non avendo [i cittadini] più sentimenti, rassembravano nonché estatici, spiranti per il grandissimo cordoglio [che] sentivano. Non sapendo come deportarsi, ora davano nelle smanie gridando nell’assemblee allo sproposito, ora lacrimando le loro miserie per non aver più formalità di costentarsi come prima, ora proponendo di retirarsi per evitare la morte senza sapere in qual luogo; ed ora dandosi nell’imprecazioni, sparlando contro chi non entrava forse nelle loro afflizioni. Ed il peggio era che sormontavano e nell’animo, e nel corpo loro, l’angustie, non apparendo alcun modo di togliersi almeno in minima parte tanti travagli [se non] con la pace universale, conforme più volte alla sfuggita si figurava d’alcuni. Perché la bramavano o col discacciamento delli Spagnuoli, togliendosi l’assedio di essi con farsi la battaglia dalle nostre truppe; o infine coll’assalto dalli nemici spagnuoli alla città. O per vincere o restar vinti, affinché s’avesse qualche respiro. Ognuno la discorreva a suo capriccio, solo per esser esente da tanti e tanti crucij, dolori, tormenti e pertubazioni che giornalmente si soffrivano. Discorrendosi, di più, che le nostre truppe per esser superiori così nel numero, come nell’intrepidezza e disciplina militare, da quelle nemiche, facilmente dando l’assalto l’avrebbero fugato. Nondimeno dalli più prudenti si refletteva che il signor Generale Zumjungen (comandante tudesco, quale teneva tutto il dispotico nella predetta guerra) aver imparato - per esser da più anni consumato nell’altri conflitti guerrieri - che a quello che riceve l’assalti il soffrire è il rimedio più giovevole. Attendendo a defendersi dentro agli proprij confini, stimava a vittoria il ributtare il nemico. Anzi, stimando più la morte d’un solo suo soldato che di più nemici, non voleva avventurare le sue truppe che in evidente guadagno. Colla speme che tenendosi lungamente a bada il nemico, o quello avrebbe avvertito a retirarsi o avrebbe a se stesso dato occasione di vincerlo.

 

16 aprile 1719

16 aprile. Non si da relazione in detto giorno del disparo de’ cannoni e gettito di bombe continuamente dal mattino sino la sera. Come pure delli mortari con pietre e granati nelle trinciere per tutta la notte sino all’alba. Stanteché con tante palle e bombe nella città non successe danno alcuno contra le persone. Solamente si disfecero molte case o in parte o in tutto. Delché dalli poveri cittadini non si teneva più cura, attendendosi alla conservazione della propria vita.

La crudele - ma necessaria - flagellazione riservata al militare che commetteva furti ai danni dei superiori: il condannato avrebbe dovuto camminare seminudo, per ben tre volte, tra due file parallele di soldati, ciascuno dei quali lo avrebbe percosso con una verga in mano S’osservò per tutto il tempo che persistette la guerra in questa città - con l’assedio delli Spagnuoli e con la guernizione delle truppe tudesche per defensione della medema - non esservi giorno che non avesse seguito alcun latrocinio fatto dalli soldati, specialmente di arnesi di casa, mobili, superlettili, vestimenti o altre robbe consimili. E benché s’avessero fatto replicate instanze agli officiali maggiori per darsi il rimedio conveniente, mai si potè alcanzare [conseguire, ottenere, ndr] cosa profittevole. E pure alle volte - bensì di rado - si venne a tenersi conseglio di guerra contro alcuni soldati che rubbavano superlettili delli loro officiali. Come seguì in questo giorno contro tre soldati, per essere stati convinti d’avere preso pochi mobili d’un loro capitano tudesco. Concorrendo molti voti contro li sudetti soldati pure al supplicio della morte. Ma, quasi per speciale grazia, il principale fu condannato ad essere preso con bacchette di tutti l’altri soldati per tre volte continuamente. E l’altri due, meno delinquenti, che fossero condotti pure al luogo deputato per soffrire la medema pena. Ma doppo, sospendendosi tal castigo, dovessero per mese uno continuo caminar colle catene a’ piedi e col travaglio alle trinciere per molti giorni, dovendo pure star sequestrati per sempre sino che s’effettuava la condanna nel quartiero.

Il prendersi a bacchette alcun soldato si costumava con molto rigore. Poiché, approntati molti fasci di verghe sottili verdi o di granatari [albero di melograno, ndr], o altro albero consimile, si radunavano da cinquanta o più o meno soldati in un piano, tenendo ogn’uno di essi una di dette bacchette nella mano. E destendendosi uno appresso l’altro con farsi due linee consimili dalla parte di sopra e di sotto, si conduceva il condannato. E, denudati il petto e le reni, era posto in mezzo delli sudetti soldati, dalli quali era battuto con dette verghe, con essere tenuto correndo soffrire il triplicato battimento d’un capo sino all’altro di dette linee. Tolto se per grazia del maggiore del regimento, o altro ufficiale che assisteva a tal castigo, non s’avesse alleviato la pena colla metà o terza parte delle battiture. E, finita la spietata, per non dir barbara, flagellazione, restava il povero soldato semivivo e quasi spirante, per farsi tutto il suo corpo dalla parte superiore pieno di lividiere, sbucciando sangue. E così era condotto al quartiero, ove si salassava, cingendosi con lo spirito di vino o altro medicamento.

Per certo è una crudeltà da non riguardarsi, poiché è molto rapida l’azzione. E pure s’attestava esser necessario adoprarsi, anzi più. Altrimente non persisterebbe la disciplina militare, non usandosi gli rigori dovuti.